L’uomo che piantava gli alberi

           

In questi giorni di vacanze ho avuto l’occasione di andare a Manosque, la cittadina provenzale in cui ha vissuto Jean Giono uno scrittore di origine piemontese.

Vorrei condividere sul blog un racconto pieno di speranza “L’uomo che piantava gli alberi”…quanto può essere grande l’opera di una sola persona di animo semplice e con un grande cuore! La sua costanza mi ha ricordato quella di chi con coraggio e dedizione ogni giorno si occupa delle persone più fragili a Casa Santa Luisa.

Una quarantina circa di anni fa, stavo facendo una lunga camminata, tra cime assolutamente sconosciute ai turisti, in quella antica regione delle Alpi che penetra in Provenza…….
Si trattava, quando intrapresi la mia lunga passeggiata in quel deserto, di lande nude e monotone, tra i milledue e i milletrecento metri di altitudine. L’unica vegetazione che vi cresceva era la lavanda selvatica.
……….
Dovetti riprendere la marcia. Cinque ore più tardi non avevo ancora trovato acqua e nulla mi dava speranza di trovarne. Dappertutto la stessa aridità, le stesse erbacce legnose. Mi parve di scorgere in lontananza una piccola sagoma nera, in piedi. La presi per il tronco d’un albero solitario. A ogni modo mi avvicinai. Era un pastore. Una trentina di pecore sdraiate sulla terra cocente si riposavano accanto a lui.
Mi fece bere dalla sua borraccia e, poco più tardi, mi portò nel suo ovile, in una ondulazione del pianoro. Tirava su l’acqua, ottima, da un foro naturale, molto profondo, al di sopra del quale aveva installato un rudimentale verricello.
L’uomo parlava poco, com’è nella natura dei solitari, ma lo si sentiva sicuro di sé e confidente in quella sicurezza. Era una presenza insolita in quella regione spogliata di tutto. Non abitava in una capanna ma in una vera casa di pietra, ed era evidente come il suo lavoro personale avesse rappezzato la rovina che aveva trovato al suo arrivo. Il tetto era solido e stagno. Il vento che lo batteva faceva sulle tegole il rumore del mare sulla spiaggia.
La casa era in ordine, i piatti lavati, il pavimento di legno spazzato, il fucile ingrassato; la minestra bolliva sul fuoco. Notai che l’uomo era rasato di fresco, che tutti i suoi bottoni erano solidamente cuciti, che i suoi vestiti erano rammendati con la cura minuziosa che rende i rammendi invisibili.
Divise con me la minestra e, quando gli offrii la borsa del tabacco, mi rispose che non fumava. Il suo cane, silenzioso come lui, era affettuoso senza bassezza.

……..

Il pastore che non fumava prese un sacco e rovesciò sul tavolo un mucchio di ghiande. Si mise a esaminarle l’una dopo l’altra con grande attenzione, separando le buone dalle guaste. Io fumavo la pipa. Gli proposi di aiutarlo. Mi rispose che era affar suo. In effetti, vista la cura che metteva in quel lavoro, non insistetti. Fu tutta la nostra conversazione. Quando ebbe messo dalla parte delle buone un mucchio abbastanza grosso di ghiande, le divise in mucchietti da dieci. Così facendo eliminò ancora i frutti piccoli o quelli leggermente screpolati, poiché li esaminava molto da vicino. Quando infine ebbe davanti a sé cento ghiande perfette, si fermò e andammo a dormire.
La società di quell’uomo dava pace. Gli domandai l’indomani il permesso di riposarmi per l’intera giornata da lui. Lo trovò del tutto naturale o, più esattamente, mi diede l’impressione che nulla potesse disturbarlo. Quel riposo non mi era affatto necessario, ma ero intrigato e ne volevo sapere di più. Il pastore fece uscire il suo gregge e lo portò al pascolo. Prima di uscire, bagnò in un secchio d’acqua il sacco in cui aveva messo le ghiande meticolosamente scelte e contate.
Notai che in guisa di bastone portava un’asta di ferro della grossezza di un pollice e lunga un metro e mezzo. Feci mostra di voler fare una passeggiata di riposo e seguii una strada parallela alla sua. Il pascolo delle bestie era in un avallamento. Lasciò il piccolo gregge in guardia al cane e salì verso di me. Temetti che venisse per rimproverarmi della mia indiscrezione ma niente affatto, quella era la strada che doveva fare e m’invitò ad accompagnarlo se non avevo di meglio. Andava a duecento metri da lì, più a monte. Arrivato dove desiderava, cominciò a piantare la sua asta di ferro in terra. Faceva così un buco nel quale depositava una ghianda, dopo di che turava di nuovo il buco. Piantava querce. Gli domandai se quella terra gli apparteneva. Mi rispose di no. Sapeva di chi era? Non lo sapeva. Supponeva che fosse una terra comunale, o forse proprietà di gente che non se ne curava? Non gli interessava conoscerne i proprietari. Piantò così le cento ghiande con estrema cura.

Dopo il pranzo di mezzogiorno ricominciò a scegliere le ghiande. Misi, credo, sufficiente insistenza nelle mie domande, perché mi rispose. Da tre anni piantava alberi in quella solitudine. Ne aveva piantati centomila. Di centomila, ne erano spuntati ventimila. Di quei ventimila, contava di perderne ancora la metà, a causa dei roditori o di tutto quel che c’è di imprevedibile nei disegni della Provvidenza. Restavano diecimila querce che sarebbero cresciute in quel posto dove prima non c’era nulla.
Fu a quel momento che mi interessai dell’età di quell’uomo. Aveva evidentemente più di cinquant’anni. Cinquantacinque, mi disse lui. Si chiamava Elzéard Bouffier. Aveva posseduto una fattoria in pianura. Aveva vissuto la sua vita.
Aveva perso il figlio unico, poi la moglie. S’era ritirato nella solitudine dove trovava piacere a vivere lentamente, con le pecore e il cane. Aveva pensato che quel paese sarebbe morto per mancanza d’alberi. Aggiunse che, non avendo altre occupazioni più importanti, s’era risolto a rimediare a quello stato di cose.
Poiché conducevo anch’io in quel momento, malgrado la giovane età, una vita solitaria, sapevo toccare con delicatezza l’anima dei solitari. Tuttavia, commisi un errore. La mia giovane età, appunto, mi portava a immaginare l’avvenire in funzione di me stesso e di una qual certa ricerca di felicità. Dissi che nel giro di trent’anni quelle diecimila querce sarebbero state magnifiche. Mi rispose con gran semplicità che, se Dio gli avesse prestato la vita, nel giro di trent’anni ne avrebbe piantate tante altre che quelle diecimila sarebbero state come una goccia nel mare………
Ci separammo il giorno dopo.

L’anno seguente ci fu la guerra del ’14, che mi impegnò per cinque anni. Un soldato di fanteria non poteva pensare agli alberi. A dir la verità, la cosa non mi era nemmeno rimasta impressa; l’avevo considerata come un passatempo, una collezione di francobolli, e dimenticata.
Finita la guerra mi trovai con un’indennità di congedo minuscola ma con il grande desiderio di respirare un poco d’aria pura. Senza idee preconcette, quindi, tranne quella, ripresi la strada di quelle contrade deserte.
Il paese era cambiato. Tuttavia, oltre il villaggio abbandonato, scorsi in lontananza una specie di nebbia grigia che ricopriva le cime come un tappeto. Dalla vigilia m’ero rimesso a pensare a quel pastore che piantava gli alberi. Diecimila querce, mi dicevo, occupano davvero un grande spazio.
Avevo visto morire troppa gente in cinque anni per non immaginarmi facilmente anche la morte di Elzéard Bouffier, tanto più che, quando si ha vent’anni, si considerano le persone di cinquanta come dei vecchi a cui resta soltanto da morire. Non era morto……..

Mi ricordavo l’aspetto di quelle terre nel 1913, il deserto… Il lavoro calmo e regolare, l’aria viva d’altura, la frugalità e soprattutto la serenità dell’anima avevano conferito a quel vecchio una salute quasi solenne. Era un atleta di Dio. Mi domandavo quanti altri ettari avrebbe coperto di alberi………

In generale Vergons portava i segni di un lavoro per la cui impresa era necessaria la speranza. La speranza era dunque tornata……..

Dove nel 1913 avevo visto solo rovine sorgono ora fattorie pulite, ben intonacate, che denotano una vita lieta e comoda. Le vecchie fonti, alimentate dalle piogge e le nevi che la foresta ritiene, hanno ripreso a scorrere. Le acque sono state canalizzate. A lato di ogni fattoria, in mezzo a boschetti di aceri, le vasche delle fontane lasciano debordare l’acqua su tappeti di menta. I villaggi si sono ricostruiti a poco a poco. Una popolazione venuta dalle pianure, dove la terra costa cara, si è stabilita qui, portando gioventù, movimento, spirito d’avventura. S’incontrano per le strade uomini e donne ben nutriti, ragazzi e ragazze che sanno ridere e hanno ripreso il gusto per le feste campestri.
Se si conta la vecchia popolazione, irriconoscibile da quando vive nell’armonia, e i nuovi venuti, più di diecimila persone devono la loro felicità a Elzéard Bouffier.
Quando penso che un uomo solo, ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e morali, è bastato a far uscire dal deserto quel paese di Canaan, trovo che, malgrado tutto, la condizione umana sia ammirevole. Ma, se metto in conto quanto c’è voluto in costanza nella grandezza d’animo e d’accanimento nella generosità per ottenere questo risultato, l’anima mi si riempie d’un enorme rispetto per quel vecchio contadino senza cultura che ha saputo portare a buon fine un’opera degna di Dio.
Elzéard Bouffier è morto serenamente nel 1947, all’ospizio di Banon.

[Testo scaricato dal sito: http://www.culturalegno.org/]



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